Dallo zoccolo alla scarpa di lusso
In principio è stato la calzatura tipica della campagna lucchese, lavorata a mano e intagliata nel legno con attrezzi di fortuna. Lo zoccolo è nato così, a Segromigno e dintorni, prima di diventare un prodotto tipico della zona e di dar vita a diverse generazioni di calzaturieri. Gli scarsi mezzi economici e l’abbondanza, in zona, di pioppo verde, facile a lavorarsi, aveva favorito nelle famiglie contadine in cui l’arte di arrangiarsi era la norma, il bisogno di produrre in proprio i primi prototipi di zoccoli, pezzi unici e rari, diversi l’uno dall’altro che non necessitavano di alcun assemblaggio. Lo zoccolo, inizialmente, era lavorato in maniera grossolana ma era già molto resistente e pratico, adattandosi molto bene alla dura vita dei campi. Poi, però, affinata l’arte, quella che era nata come semplice attività di sussistenza, divenne un mestiere, ancorché svolto per integrare le rendite del lavoro nei campi, anticipando la nascita dei primi laboratori artigianali ricavati nelle cascine e nelle vecchie stalle. Non occorrevano molti attrezzi per lavorare il legno. Erano sufficienti l’“uncavino” e lo “sfiossino”, oltre ad una panca a tre piedi e tanto “olio di gomito”, per dar vita alla “pianella”, il primo zoccolo segromignese. Nacquero, così, a fine ottocento, i primi calzaturieri di Segromigno. Poi l’evoluzione del settore e l’introduzione dei primi macchinari e della manovia cambiarono il destino dello zoccolo che, progressivamente, cominciò ad arricchirsi di decorazioni e di colori e a separarsi in tante parti tutte da assemblare, favorendo la specializzazione delle lavorazioni e anche la rifinitura del prodotto, assicurando un buon livello qualitativo pur nella sua semplicità e nell’economicità del prezzo. Una crescita continua, proseguita anche nel secondo dopoguerra, quando i compratori americani ne decretarono il successo, commissionando ai calzaturifici della provincia, ordini tanto consistenti da far segnare cifre da capogiro: il 40% dell’export lucchese, negli anni settanta-ottanta, era costituito dal settore calzaturiero che rappresentava quasi l’80% della produzione nazionale di zoccoli, proveniente nella quasi totalità dalla zona di Segromigno e dintorni. Inevitabilmente si generò una proliferazione di piccole aziende a carattere familiare e lavoro a domicilio, determinando un sensibile incremento dell’occupazione nel settore che superò i cinquemila addetti. Ma proprio l’estremo frazionamento del settore locale fu alla base della crisi, ad inizio degli anni ottanta, quando i problemi dell’economia americana e della tenuta della lira, portarono ad un ridimensionamento generale e soprattutto ad un cambio di strategia sotto la spinta della recessione economica e della serrata concorrenza dei paesi in via di sviluppo. In poco tempo, lo zoccolo finì ai margini della produzione locale, scalzato dai sandali e soprattutto dalla scarpa di lusso mentre erano cambiate le priorità delle aziende rimaste che cominciarono a puntare sulla qualità del prodotto, abbandonando le fasce di mercato più basse. Il mercato globale stava iniziando a cambiare la connotazione del comparto italiano e anche di quello lucchese che, per restare in vita, si è dovuto adattare e investire nella ricerca, puntando sul design e sulla qualità del prodotto. Uno sforzo riconosciuto a livello internazionale che ha portato le grandi firme italiane e mondiali a servirsi dei calzaturifici lucchesi che hanno trovato nel “Centro Servizi Calzaturiero” (Ce.Se.Ca.) di Segromigno in Monte, un valido supporto per promuovere la propria immagine sui mercati mondiali. Oggi il calzaturiero lucchese è sinonimo di scarpa di lusso ma non ha perso le radici con le sue origini e produce ancora zoccoli di legno, anche se di pregio, che mantengono un proprio mercato mentre il settore occupa ancora migliaia di addetti e aziende decisamente orientate all’export.
Le concerie - La “Pelleria” quartiere simbolo della città
Il settore della pelle ha avuto, in passato, un ruolo importante soprattutto nel centro cittadino lucchese, tanto da riservare due interi quartieri ai suoi maestri artigiani. La lavorazione si era diffusa già nel XIII° secolo quando, la ritrovata stabilità politica su tutto il territorio soggetto al suo controllo, favorì l’accentramento sulla città di gran parte della produzione agricola della periferia, zone montane comprese. E tra questa, particolarmente diffuso era, infatti, l’allevamento di ovini e suini, non solo per il consumo di carne e latticini ma anche per l’utilizzazione delle pelli. Così, in città si moltiplicarono i cuoiai e i pellai, anche se dovettero fare i conti, con una progressiva emarginazione, a causa dei cattivi odori emanati dalle pelli lavorate e lasciate ad essiccare lungo i fossi. Inizialmente i pellai avevano i propri laboratori artigiani nella zona della chiesa di S. Andrea detta di “pelleria”, vicino al quartiere oggi del Carmine, per la presenza di un fosso che attraversava trasversalmente la città. Ma quando ne fu deviato il corso, i pellai dovettero trasferirsi nel quartiere dei fossi vicino a S. Pietro Somaldi, finché le continue proteste per gli sgradevoli odori che emanava e che rendevano l’aria irrespirabile, spinsero il governo lucchese nel 1382 a trasferirli definitivamente nel quartiere di S. Tommaso, la zona ancora oggi conosciuta come “Pelleria”, dove già si trovavano i cuoiai. Ma la crescente urbanizzazione, anche delle parti più periferiche del centro, imposero la scelta drastica di emarginarla sempre più, concedendo anche a quest’arte di uscire dalla città, prima nella zona tra Porta S. Donato e Porta di Borgo e poi impiantandola perfino a Borgo a Mozzano. Tanti erano i prodotti richiesti, come le pergamene in carta pecora, gli scudi e le mortelle, un’arte difesa dal governo locale con divieti all’importazione del cuoio lavorato e all’esportazione delle mortelle, e con l’obbligo per i macellai a vendere le pelli scarnite a prezzi politici. Ma quando arrivarono i francesi, ad inizio ‘800, con loro rivoluzione commerciale e le razzie di prodotti e attrezzature effettuate, per il settore, che non godeva più di alcuna protezione, fu la fine ed oggi, la produzione non è particolarmente significativa.